Lontano,
verso il fondo del mare,
i pescatori appaiono
come oligarchiche tracce
dell’incompreso arcipelago umano.
Vetuste figure, giunte fin qui:
nell’ultimo dei giorni.

Il mio percorso formativo inizia da giovanissimo con l’arte e approda, in età adulta, alla filosofia. Sono regista, documentarista, poeta e attivista culturale. Ho studiato all’Accademia di Belle Arti di Catania e all’Université de Picardie Jules Verne in Francia, vissuto in Olanda e poi in Belgio: dove ho lavorato per oltre un decennio come ‘content creator’ nel settore del marketing e della comunicazione. Sono autore di diversi documentari, tra cui Nixima Convivere col mostro (2015), Ccà/Qui (2017) e Lockdown – Le voci della città (2020).

I miei lavori sono stati esposti in Italia, in Europa, negli Stati Uniti e in America Latina. Ho collaborato con l’European Cultural Parliament Young Network, Mediaroad, Europe Analytica, Cepi.tv, Filem’On – International Film Festival for Young Audiences, GEM, Libropolis, Il Paradigma, l’Ass. Culturale Panaria Film della principessa Vittoria Alliata di Villafranca e NaxosLegge. Sono tra i soci fondatori del collettivo audiovisivo Toolium, presidente del network culturale Progetto Syllabus, fondatore e Direttore artistico del festival La Culturale – Pensiero critico in movimento. Attualmente studia filosofia – per una seconda laurea – all’Università degli studi di Messina. 

Considero la scrittura un bene rifugio e uso questo spazio per condividere i miei versi e le mie riflessioni sulla contemporaneità.

Per maggiori info:

www.progettosyllabus.org
www.laculturale.org

IN VERSI

DEL VIVERE

 

 

Vivo di un mare
che non ha pietà.
Di un cielo,
che a volte impazzisce,
che e a volte piange.
Di una roccia,
che non ha vergogna
della sua vecchiaia:
né del tempo che passa
e scalfisce ruvido
gli strati.

 

 

 

SIAMO GIA’ STATI QUI

 

 

Siamo già stati qui
altre volte, se ricordi bene:
piume di vita castissima nel mare,
presagi di folgore sulla terra umida,
verbo di tregua in superficie
e punto alchemico
non lontano dalla perfezione.

Ci siamo immaginati
parziale vacuità. Danza
libera nell’epicentro
o la fine della sera,
tra gli sfondi lacerarti,
dietro quel canneto. L’esistere
inghiottito nei millisecondi.
Il niente. Il senso.

 

 

 

DEL FUOCO

 

 

C’è un fuoco ininterrotto
nell’isola deserta
della nostra umanità.

Lì: dove tutte le cose stanno,
come racchiuse, in una cometa
che è vertice, abisso, immensità.

Vi fa ritorno chi la riconosce.
Chi sente
la propria ineludibile peritura
nel secondo che passa.

Solitari che rivivono e accarezzano,
con piedi nuovi e nudi,
tutto un sapere senza tempo,
custodito per millenni,
in un timpano di roccia.

Occhi che guardano, sapendolo,
dentro i solchi profondissimi
dell’aurora. Nel confine dilatato
che disvela l’immutabile,
l’autentico nelle sue vestigia,
in schegge di mare e tuono.
In conchiglie. In fiori.
In anemone. In verbo.

 

 

UN PASSO ALLA VOLTA

 

 

Un passo alla volta
qualcosa si sgretola, svanisce, si spegne.
Tutte le volte. Un passo alla volta.
Qualcosa. Sempre.  

Ed è così che noi apprendiamo,
come il vacillare stabile e continuo
della fissità, nella vertigine,
nel peso inerte delle cose,
nel colore dell’onda
nell’ora inghiottita dalle ore,
o nel giorno unico dei giorni,
ci contamina. Ci penetra.

Tutte le volte. Un passo alla volta.

Così: come in silenziosi frangenti
che ricoprono il capo di cenere,
o in esplicite visioni future,
che lampeggiano,
sull’appassire di mani slegate
dalla storia del mondo
e dal suo divenire. 

 

 

 

DEI SILENZI

 

 

 

E poi un giorno torneranno
a farti visita i silenzi: tu lasciali
parlare alla parte più fragile di te.
Al prodotto della desuetudine
che è in te. A tutto ciò che ora siede
sul trono del tuo regno decaduto 
dopo mille battaglie
andate avanti senza di te.

 

Fuggire non serve.

 

Arriveranno ancora gli echi,
a cavallo. Come oscuri cavalieri,
con scarpe e guance chiodate,
a liberare serpenti che smuovono
acque e spine sui fianchi:
ma tu lasciali fare,
lasciali parlare al posto tuo.

 

Non intrometterti.
Non interromperli.

 

Perché essi,
soltanto essi già sanno,
l’unica lingua in grado
di risanare ogni cosa.

 

 

 

DEL GRIDO

 

 

 

C’è un grido potentissimo
nell’aria: raccoglilo.
E fanne perle per le catene
che prima o poi
dovrai spezzare.

Una punta di nero
comprime le strade nell’oscurità,
mentre le voci, s’attaccano impietose,

come meduse,
alla giugulare della notte.
E poi sui muri ricoperti
dai segni del decadimento, che da solo,
lascia circolare indisturbati

pensieri pieni
di un buio luminosissimo.


Non qui. Altrove.
La vita, è altrove. 

 

Noi siamo solo l’apertura alare
del disincanto. E precipitiamo.
Sempre. Ogni momento.

 

Altrove.

 

 

Muoviti quando il mondo sta fermo.
Fermati quando questi si muove.

 

Avremmo potuto
essere altro da tutto questo:
forse una frase, una mano,
un cuore diverso.

E invece siamo solo frammento.

Oppure semplicemente il momento,
l’istante
circolare e corrente,
che muta, come l’ombra
proiettata dal corpo prigioniero
al centro della meridiana.

 

E allora Impara,
che ogni cosa è nata 

per distruggersi,

così come ogni certezza è tale
perché tutto, nella contraddizione,
si muove per infrangersi.


Inutile contare ore e giorni,
se lo scopo  – o ciò che ci gratifica –
è riformulare un illusorio
ordine delle cose.

 

Che tu lo voglia o no, viviamo:

perché siamo inarrestabile metamorfosi.

Ma impara: non tutti i vermi della terra

vedranno gemmare,
dalla loro schiena,

ali di farfalla.

 

Perciò impara,
che ogni divenire
è un divenire a sé,

così come ogni alba 

e ogni tramonto
appaiono diversi,

perché diverso
è il cielo che li ospita.


Impara.

Impara ad accogliere l’inaspettato,

ma non attendere l’attesa:

non attendere chi non attende insieme a te.

Perché l’attesa mangia il vuoto
che scruta il vuoto dentro te.

 

Impara a non colpire,
se non sai difenderti. Mai.
Perché c’è sempre
chi ha la luce nelle mani

e quando schiude gli occhi

provoca torsioni nelle trame.

 

Impara.

Impara a non dargli un nome:

ma a sentire che un Dio sta nelle cose.

E impara anche questo:
a farti amica l’oscurità.

Perché in essa è avvolta
tutta la palla scura,

che noi chiamiamo 

Madre Terra.

L’abisso. La chiave.
I segreti. Le viscere.

Imparerai allora,

che non c’è mai stato
un solo modo d’imparare.

Che un tuono nel senno
non significa niente,

così come niente significa un segno,
se disconosciamo,
tutto ciò che lo precede.

Eravamo a limite delle fatidiche ore,
appesi a questo un filo sottile
incapace di reggere il niente.

Talvolta, come per errore,
ci si incantava del niente,
ci si inceppava sul niente.

E poi correvamo come matti,
con le mani aperte al cielo,
a bagnarci all’aperto. Al cielo:
sotto un’indomita fioritura di fulmini.

Dalla finestra osservammo enormi ombre
calare lentamente sui palazzi,
intagliare la luce sovrana,
fendere il giorno
alle tre del pomeriggio.

E mentre la cenere d’incenso
profumava ancora la stanza
noi, di spalle, in controluce,
guardavamo inebetiti il mondo
ripiegarsi morente su se stesso
e poi spegnersi.

 I

Lontano,
verso il fondo del mare,
i pescatori appaiono come oligarchiche tracce
dell’incompreso arcipelago umano.
Vetuste figure, giunte fin qui:
nell’ultimo dei giorni.

E da quando le granitiche barriere del mondo
si sono dissolte,
rendendo il flusso un flusso ibrido e libero,
dove il materiale e l’immateriale,
vivono, sostanzialmente,
in un’armoniosa congettura osmotica,
già più in là,
tutti noi naufraghiamo e tutti noi giungiamo.
Da qualche parte,
verso lo scardinamento rituale delle incognite,
dove nuove rive e nuovi porti ci attendono.

I figli d’uomo sono sempre stati tutti naufraghi:
naufraghi della terra e del mare
e naufraghi dentro e fuori il corpo.
Naufraghi.
Persi dentro i moti di rivoluzione
tra due congiunzioni viste nel cielo
dal centro della Terra,
alla fine di un periodo siderale.

Talvolta spinti da una forza mordace,
che induce e conduce nel buio della fame
e bagna sconfitta le ossa nell’aceto.
Altre ancora per incoscienza,
da un mondo all’altro fino all’altro mondo,
gli uomini si muovono.
Tutti partono e approdano. E vanno, verso là,
verso tutto ciò che essi credono luce.
Verso là, dove come tutti gli altri, alla fine,
perderanno il senso. Muteranno.

II

E ora stanno messi stretti in questo corridoio,
in questo grande ingorgo, che fagocita le vite di altri luoghi
e le trasforma in altri uomini. E no, non c’è salvezza.
E nemmeno una rivalsa su ciò che è visto come limite:
ma solo la passeggera ebbrezza di una conversione calcolata,
che si innesca funesta vestita di bacilli artificiali.

E giacché ora il corpo è un guscio di lumaca vuoto,
una casa abbandonata,
il cui suono è il residuo dei residui di un ricordo lontano,
nulla è più abbastanza potente da rievocare i bastimenti
e le bandiere che una volta sfidavano il mare.

Andiamo,
perché da un mondo all’altro fino all’altro mondo
ogni cosa si muove, e noi non siamo che un danza
dipanata in un soffio, quel soffio:
quello che in egual durata e misura
smuove dal capo appena un ciuffo di capelli,
collocando tutto in un’ampia distanza  priva di comprensione.

Sì. Siamo già troppo lontani
dal nostro epicentro originario:
perciò lasceremo solo segni nella pietra e nel cemento,
e la traccia del nostro respiro
e del perpetuo e del sempre e comunque 
eloquente alfabeto,
che steso su un letto di cenere e petali ancora ardente,
impedisce al timido uomo il passaggio,
che ad ogni modo,
— come dal primordiale schiocco delle due pietre
e dalle impronte sul suolo terrestre e sui muri,
e dai ciottoli limati a chopper, fino al comunicare  —
segno e gesto era  e segno e gesto ritornerà.

III

Dentro ognuno di noi c’è già un destino che tace
e tesse silenziosamente l’agguato.
Ma cosa aspettiamo? L’ordine? Il disordine?
Oppure l’inimmaginabile esito
dell’estropia e dell’entropia in continua lotta?

Chissà, forse creeremo altre entità
che di noi dimenticheranno.
Altre entità che a sua volta colonizzeranno
altri mondi e altre vite. E chissà,
chissà se nasceranno,
altri sedimenti di realtà infinite.

E chissà, chissà…
Chissà se un giorno, con altri dei e altre polis
danzeremo,
tra realtà o alterità,
roteando come pagine
tra le distinte opere dei fratelli Banū Mūsā,
fino al pulviscolo.
Percorrendo un ultimo viaggio,
che conduce dritti alla Stella.
Passando dalla prima, alla seconda,
fino alla terza vertebra:
Alioth, Mizar e Alkaid.
E poi Orione e Orsa maggiore,
tra le Pleiadi
e la coda dell’Ariete,
Iadi,
Corona Boreale,
Iggaren,
masticando l’Agar,
scrutando il corno d’Africa
e poi Rabat ed Agadir.

Ma dopotutto ci sarà sempre, ci sarà sempre,
chi alla fine del viaggio, sa dove tornare.
Per questo alle volte arriva sospinta l’origine:
il terzo giorno d’aprile,
con una voce che graffia il fondo dell’imbuto dei ricordi,
e grida: Antudo! Antudo! Antudo!

Comunicare: è per questo che siamo nati.
Comunicare: è per questo che siamo uomini.
Comunicare, comunicare: a gesti, segni, suoni.
Per conoscerci. Per compiacerci. Per impaurirci.
Per ucciderci a vicenda.

Ed è in quell’attimo che disconosciamo la parola,
il segno, il comunicare.

Perché animali siamo e fummo,
così come ogni cosa che vita coltiva.

Comunichiamo,
soffiando sui venti di guerra,
coprendo l’armistizio
con coltre dialettica

Comunichiamo,
tutto ciò che è già stato comunicato
in tempi di pace e di lotta.

Comunicare,
per essere più forte dell’altro comunicare,
comunicando. Insistere: con eloquenza vergine,
vivida, esistere.

Fuori e dentro ogni certezza
Vivere. Vivendo per comunicati
da comunicare.

Il Dio comunicare
Noi due comunicare
Le idee comunicare.

Ed eccoci:
al giorno in cui comunicare il comunicare,
non ha più senso.

Ma andale,
Il mondo dice andale,
avec toi toujour la vie est belle
andale!

Comunicare
per comunicare.

Pace e immortalità

Non illuderti. I giorni che verranno, per te, non saranno che una lotta. Lotta, perché tutto ciò che vive è venuto al mondo per uccidere. Lotta, perché appartieni a questo cerchio e sei parte integrante di un conflitto insonne: senza tregua, senza tempo, che genera, uccidendo.


Un giorno, casualmente, apri gli occhi. Muovi i primi passi e divori. L’altro, li chiudi. E nell’oblio del buio inconsapevole, vieni divorato. Così è venuto al mondo chi ti ha messo al mondo: lottando, uccidendo, divorando. Due corpi, una goccia più rapida, incalzante e spietata di tutte le altre nel tumulto. L’ovario in fiamme, la placenta, la suzione nel seno dal quale sgorga il primo sorso di un oceano che chiamerai — per sempre  vita.

Tutto lotta. Tutto si contrae. Tutto uccide e divora per venire al mondo: piante, animali, cellule, correnti. E le stesse, un giorno, toglieranno a te ciò che hai raccolto accumulato nel tempo, e lo daranno ad altri: perché altri lottano e sempre lotteranno per avere. Senza pietà. Senza intervalli.

 
Le correnti non sono due: ma una. Una soltanto. Da un punto infuocato al centro — grande come un cuore — la linea parte e si biforca. Poi, come in un abbraccio sconfinato, divino, in un altro, si incontra, si tocca: e mette fine ai tuoi giorni logorati e militanti.
 
Nasci: perché una forza ti scaglia in uno dei tanti gironi del Creato. Questo. Muori: perché un’altra — con la stessa intensità e con la stessa aspirazione — ti risucchia via, rimettendoti altrove. Il primo vagito, come l’ultimo soffio di vento che vortica via nel vuoto della tua carcassa sono consustanziali, simultanei, inesauribili. Così la rosa sboccia e appassisce, si imperla e inaridisce: insieme. Ma ciò che noi chiamiamo forza non è che una dimensione, uno spazio. Il punto interstiziale, intangibile, incorporeo, del cerchio dove partono e lottano i due poli opposti di attrazione e sottrazione che determinano l’esistere e il perire di ogni forma di vita.

Accade tutto qui: in questo turbine raggiante, infuocato, feroce.
 

Ma tu per vivere lotta. Eludi ogni distrazione, ogni assoggettamento: l’inganno delle forme più innocue, gentili, tenere. Lotta. Perché anche il sublime uccide con la medesima pulsione infernale dell’orrendo. Nessuno sguardo, nessuna mano, nessuna bocca è puramente, candidamente, innocente. Cosa vuole da te quella carezza? Quanta vita ha divorato quel campo, prima di fiorire? Quanta, nel vorticoso risucchio allarvato sotto la quercia, ne è stata restituita? E quale bestiale delicatezza scrutiamo nel convivio tra la farfalla e il cuore della rosa? Quale poetica, quale filosofia se non lo scopo, se non la lotta, nello stelo e le sue spine?


Dentro il tuo corpo una tempesta di bacilli prova in tutti i modi a ribellarsi all’altra, che invece sopravvive arrampicandosi dentro di te, cibandosi di te, tirandoti dentro di sé: giù, lungo le spire dell’età. Fino alla fine. Oltre la fine. Fino a quando tu e la terra non sarete più un irrelato radicale: ma un tutt’uno superiore che lega voi all’antico. Al materno.

 

Quale pace? Quella mentale che vai cercando non è che un edificio di menzogne, un apprendistato impraticabile.
Non esiste. Dimenticala. Dentro la tua mente una fiammata parte e poi divampa — insieme ad altre — in un infaticabile incendio che ti tiene sveglio per tutto il tempo della danza. Così osservi il volo pindarico dei tuoi infiniti e indecifrabili tormenti. Lo schianto. Il sogno. L’incubo. La lotta. Fintanto che il vuoto non occuperà la stanza. Fintanto che una voragine non avrà inghiottito l’ultimo frammento dei tuoi soffocanti supplizi. Il soffio, gli spifferi. Perciò non pensare all’idea di non pensare: lotta. Perché il pensiero è lotta e nient’altro. Costantemente, sempre. Dalla prima all’ultima contraddizione. Dal primo all’ultimo respiro precipitato, miseramente, lungo il declivio della tua tormentata esistenza.


Lotta. Perché la pace è solo un breve, laconico frangente, di sazietà. Un frangente solo tuo, mai di altri. Perché nessuna pace potrà mai conciliare con la tua, mai con un’altra. Perciò osserva: mentre in un angolo remoto del mondo una bocca si chiude, in un altro, un’altra, si apre come una voragine e ingoia. Così il turbinio del buio mulina vorticosamente l’urlo: vite, ossa, squame. E ogni urlo si fa canto dentro l’inno eterno. Graffio celestiale che alimenta, ininterrottamente, il cerchio.

Qui, tu, sei l’Uomo. Una legge morale dentro di te dice di tempi e di modalità. Ma il cielo stellato sopra di te ha occhi famelici di falco  — e noncurante del dettato —  punta una forma di vita e la divora.

I MIEI FILM

LOCKDOWN – LE VOCI DELLA CITTÀ

ITA

“Lockdown – Le voci della città” è un film documentario che racconta il dramma Covid-19 attraverso un susseguirsi caleidoscopico di storie e testimonianze di cittadini comuni che per troppo tempo hanno dovuto subire impotenti – pro bono pacis – la voce monocromatica dell’Autorità. Un viaggio nell’intimità di ognuno di noi, un’indagine sociale che mira a svelare le trame che compongono l’intelaiatura di questa reclusione anomala andando a scavare dentro le paure, le ansie e le speranze. Quali sono i segni che ha lasciato questo evento dentro ognuno di noi? Rimarremo ancora a lungo a leccarci le ferite, a farci assalire dalla paura della morte, del collasso economico, del controllo sociale, o parleremo presto di cicatrici risanate? Come ci rapporteremo con l’altro? Ma soprattutto, riusciremo ancora a pensare al presente e ad immaginare il futuro?

 

ENG

“Lockdown – The voices of the city” is a documentary film that tells the drama Covid-19 through a kaleidoscopic succession of stories and testimonies of ordinary citizens who for too long have had to suffer helplessly – pro bono pacis – the monochromatic voice of the Authority. A journey into the intimacy of each one of us, a social investigation that aims to reveal the plots that make up the framework of this anomalous imprisonment by digging into fears, anxieties and hopes. What are the signs that this event has left inside each of us? Will we stay long enough to lick our wounds, to be assailed by the fear of death, of economic collapse, of social control, or will we soon talk about healed scars? How will we relate to each other? But above all, will we still be able to think about the present and imagine the future?

Una Produzione Toolium – 2021 ©

 

CREW

Scritto e diretto da Giancarlo Cutrona
soggetto: Giancarlo Cutrona / Giampiero Gangi
Fotografia: Giampiero Gangi
Audio in presa diretta: Enrico Anicito Guido
Re-recording & Mix: Boris Riccardo D’Agostino
Montaggio: Giancarlo Cutrona
Color: Marco Eugenio Neri
Colonna sonora: Frédéric Vanderlynden
Direttore di produzione: Nicola Conticello
Segretaria di produzione: Cristina Dellifiori
Assistente di produzione: Veronica Cesarato

 

CAST

Isabella Bartoli
Marco Cannavò
Frate Massimo Corallo
Frate Benedetto Amodeo
Frate Claudio Viticchié
Claudia Condorelli
Tony Maugeri

PRESS

news.cinecitta.com/IT/it-it/news/53/81957/a-catania-si-gira-lockdown-le-voci-della-citta.aspx

cinemaitaliano.info/lockdownlevocidellacitta

globalist.it/news/2020/05/05/a-catania-al-via-le-riprese-di-lockdown-documentario-sul-dramma-del-covid-19-2057608.html

cameralook.it/web/lockdown-le-voci-della-citta-lanima-di-catania-nel-documentario-di-giancarlo-cutrona-e-giampiero-gangi/

interris.it/la-voce-degli-ultimi/lockdown-le-voci-della-citta-viaggio-nella-pandemia-tra-ferite-e-cicatrici-risanate/

lanouvellevague.it/lockdown-le-voci-della-citta-cominciano-le-riprese-a-catania/

 

CCÀ

ITA

Ccà è un film documentario che ritrae in forma poetica la vita rurale della Sicilia. Un viaggio tra umili pescatori, contadini e mercanti, che vivono le loro vite ai margini, tra le coste e le montagne dell’isola.

 

ENG

Ccà is a documentary film that portrays the rural life of Sicily in a poetic form. A journey amongst humble fishermen, farmers and merchants, who live their lives on the margins, between the coasts and mountains of the island.

 

CREDITS

Production: Toolium
Coproduction: Centro Studi Arti Visive
Written, directed and edited by Giancarlo Cutrona
Photography: Rosario Di Benedetto
Music composers: Giacomo Farina / Federico Farina / Frédéric Vanderlynden
Voice over: Gianpaolo Brex Sofia
Audio post-production and mix: Alessandro Fusaroli and Boris Riccardo D’Agostino
Additional Team: Alessandro Alizzo and Marco Restivo

 

NIXIMA - CONVIVERE COL MOSTRO

ITA

 

Il MUOS è un impianto satellitare militare ad alta frequenza istallato in quattro punti cardine del pianeta. Uno di questi è Niscemi. In Sicilia. Dove la popolazione locale – contraria all’imposizione delle antenne statunitensi -, è protagonista di continue rivolte. Le antenne infatti rappresentano una concreta minaccia su più fronti: come ad esempio quello ecologico e militare. Nixema racconta il contrasto tra l’autonomia della macchina, che vive più in là, ad un passo dal recinto, e la routine della popolazione locale.

 

ENG

 

The MUOS is a high-frequency military satellite system installed at four cornerstones of the planet. One of these is Niscemi. In Sicily. Where the local population – contrary to the imposition of US antennas – is the protagonist of continuous revolts. The antennas in fact represent a real threat on several fronts: such as the ecological and military one.

Nixema tells the contrast between the autonomy of the machine, which lives there, one step away from the fence, and the routine of the local population.


CREW

Regia: Giancarlo Cutrona
Fotografia: Rosario Di Benedetto