I
Lontano,
verso il fondo del mare,
i pescatori appaiono come oligarchiche tracce
dell’incompreso arcipelago umano.
Vetuste figure, giunte fin qui:
nell’ultimo dei giorni.
E da quando le granitiche barriere del mondo
si sono dissolte,
rendendo il flusso un flusso ibrido e libero,
dove il materiale e l’immateriale,
vivono, sostanzialmente,
in un’armoniosa congettura osmotica,
già più in là,
tutti noi naufraghiamo e tutti noi giungiamo.
Da qualche parte,
verso lo scardinamento rituale delle incognite,
dove nuove rive e nuovi porti ci attendono.
I figli d’uomo sono sempre stati tutti naufraghi:
naufraghi della terra e del mare
e naufraghi dentro e fuori il corpo.
Naufraghi.
Persi dentro i moti di rivoluzione
tra due congiunzioni viste nel cielo
dal centro della Terra,
alla fine di un periodo siderale.
Talvolta spinti da una forza mordace,
che induce e conduce nel buio della fame
e bagna sconfitta le ossa nell’aceto.
Altre ancora per incoscienza,
da un mondo all’altro fino all’altro mondo,
gli uomini si muovono.
Tutti partono e approdano. E vanno, verso là,
verso tutto ciò che essi credono luce.
Verso là, dove come tutti gli altri, alla fine,
perderanno il senso. Muteranno.
II
E ora stanno messi stretti in questo corridoio,
in questo grande ingorgo, che fagocita le vite di altri luoghi
e le trasforma in altri uomini. E no, non c’è salvezza.
E nemmeno una rivalsa su ciò che è visto come limite:
ma solo la passeggera ebbrezza di una conversione calcolata,
che si innesca funesta vestita di bacilli artificiali.
E giacché ora il corpo è un guscio di lumaca vuoto,
una casa abbandonata,
il cui suono è il residuo dei residui di un ricordo lontano,
nulla è più abbastanza potente da rievocare i bastimenti
e le bandiere che una volta sfidavano il mare.
Andiamo,
perché da un mondo all’altro fino all’altro mondo
ogni cosa si muove, e noi non siamo che un danza
dipanata in un soffio, quel soffio:
quello che in egual durata e misura
smuove dal capo appena un ciuffo di capelli,
collocando tutto in un’ampia distanza priva di comprensione.
Sì. Siamo già troppo lontani
dal nostro epicentro originario:
perciò lasceremo solo segni nella pietra e nel cemento,
e la traccia del nostro respiro
e del perpetuo e del sempre e comunque
eloquente alfabeto,
che steso su un letto di cenere e petali ancora ardente,
impedisce al timido uomo il passaggio,
che ad ogni modo,
— come dal primordiale schiocco delle due pietre
e dalle impronte sul suolo terrestre e sui muri,
e dai ciottoli limati a chopper, fino al comunicare —
segno e gesto era e segno e gesto ritornerà.
III
Dentro ognuno di noi c’è già un destino che tace
e tesse silenziosamente l’agguato.
Ma cosa aspettiamo? L’ordine? Il disordine?
Oppure l’inimmaginabile esito
dell’estropia e dell’entropia in continua lotta?
Chissà, forse creeremo altre entità
che di noi dimenticheranno.
Altre entità che a sua volta colonizzeranno
altri mondi e altre vite. E chissà,
chissà se nasceranno,
altri sedimenti di realtà infinite.
E chissà, chissà…
Chissà se un giorno, con altri dei e altre polis
danzeremo,
tra realtà o alterità,
roteando come pagine
tra le distinte opere dei fratelli Banū Mūsā,
fino al pulviscolo.
Percorrendo un ultimo viaggio,
che conduce dritti alla Stella.
Passando dalla prima, alla seconda,
fino alla terza vertebra:
Alioth, Mizar e Alkaid.
E poi Orione e Orsa maggiore,
tra le Pleiadi
e la coda dell’Ariete,
Iadi,
Corona Boreale,
Iggaren,
masticando l’Agar,
scrutando il corno d’Africa
e poi Rabat ed Agadir.
Ma dopotutto ci sarà sempre, ci sarà sempre,
chi alla fine del viaggio, sa dove tornare.
Per questo alle volte arriva sospinta l’origine:
il terzo giorno d’aprile,
con una voce che graffia il fondo dell’imbuto dei ricordi,
e grida: Antudo! Antudo! Antudo!